Vedere l’Ambrì Piotta festeggiare la vittoria di un trofeo è stato qualcosa di particolare, quasi una scena d’altri tempi. Sì perché dalle vittorie europee di fine anni Novanta è passata sportivamente una vita, e quando Daniele Grassi sabato pomeriggio ha alzato la Coppa Spengler, per diversi giovani tifosi quella scena è stata una prima assoluta.
Il club leventinese è tornato protagonista e lo ha fatto su un palcoscenico che ha prestigio e risonanza internazionale – le due esultanze anticipate di Zwerger hanno fatto il giro del mondo in rete – e poco importa se il torneo grigionese è una manifestazione amichevole, su invito e non riconosciuta dall’IIHF.
Questa coppa ha infatti permesso all’Ambrì Piotta di vincere qualcosa di tangibile per la prima volta nell’hockey moderno, uno sport che tanto è cambiato da quegli anni Novanta che avevano visto i leventinesi tra i protagonisti dell’hockey svizzero – eccessi che il club rischiò seriamente di pagare con il fallimento – e che ora sta richiedendo ai leventinesi tantissimo lavoro per essere competitivi con stabilità.
Non bisogna infatti dimenticare quanto in basso era caduto il club prima di accorgersi – nell’anno dello spareggio contro il Langenthal – che continuare a navigare a vista alla ricerca di una sporadica (e fine a se stessa) qualificazione ai playoff a lungo andare sarebbe stato fatale. Basti ricordare quanto “inutili” siano stati quei quarti di finale nel 2014 contro il Friborgo, ed i risultati negli anni che seguirono.
Un taglio netto con quella mentalità era finalmente arrivato con il ritiro di Paolo Duca e la sua nomina a direttore sportivo, momenti in cui l’Ambrì Piotta aveva immediatamente affermato di voler guardare ad una crescita a lungo termine. Individuare Luca Cereda come “partner” per ricostruire la filosofia del club è stato fondamentale, e se da un lato si può discutere su mille aspetti dell’attuale gestione sportiva, non si può negare il valore di aver ridato al club la propria identità, e di averlo fatto crescere con costanza nel corso degli anni.
Il successo alla Coppa Spengler forse permette proprio questo, ovvero di fare per una volta un passo indietro e di guardare le cose nel loro insieme e con una prospettiva più ampia. Certo, la lunga serie di sconfitte in autunno e le difficoltà evidenziate in stagione non vengono spazzate via o ridimensionate, ma forse in molti sabato pomeriggio hanno realizzato quanto l’Ambrì Piotta sia cresciuto in termini di credibilità rispetto ad una decina di anni fa. E questo rappresenta solo la base, il resto del lavoro deve ancora arrivare.
La cultura di un club ed il modo in cui viene percepito dall’esterno è infatti l’aspetto più difficile da cambiare, perché per farlo non basta un borsellino gonfio e qualche operazione di mercato. Guardando alla nostra realtà viene subito alla mente il Losanna, ma esistono anche esempi più illustri come quelli di New York Rangers, Montreal Canadiens oppure Toronto Maple Leafs, realtà economiche che si misurano in miliardi di dollari ma che non sono sufficienti per “comprare” la giusta cultura e poi i successi. Nei primi due casi la Stanley Cup manca dalla prima metà degli anni Novanta, mentre a Toronto l’ultima vittoria è targata 1967.
Una digressione forse eccessiva per sottolineare come i buoni risultati sul ghiaccio nascondano un lavoro molto lungo, dietro le scrivanie e sul ghiaccio quando le telecamere sono spente. Le differenze si iniziano però a vedere. Ovviamente c’è la nuova pista – un piccolo miracolo, imprescindibile per il futuro – ed una squadra che nel nuovo corso sportivo è comunque arrivata due volte al post season, ha partecipato alla CHL ed in due circostanze alla Coppa Spengler, lasciando già alla prima partecipazione un ottimo ricordo di sé.
In biancoblù si sono inoltre visti dei giocatori che verranno ricordati a lungo come Kubalik, D’Agostini, Novotny, Upshall, Perlini oppure gli attuali Spacek, Formenton e Juvonen, elementi stranieri che si uniscono ai vari Pestoni, Bürgler, Heim, Fora, Kneubuehler, Zwerger oppure Müller, che in biancoblù hanno vissuto – o stanno vivendo – tra i momenti migliori delle loro carriere.
La vittoria della Coppa Spengler è insomma un buon momento per guardare al lavoro svolto dall’Ambrì Piotta come un percorso durato diversi anni, ed accorgersi che in Leventina i passi avanti sono stati tanti. Certo, il ritorno alla realtà ci ricorda che la squadra di Cereda non ha molto margine di errore nelle venti partite rimanenti in campionato, e che a livello di intensità qualcosa nel recente passato è mancato.
L’ultimo capitano ad aver alzato un trofeo ora però non è più Tiziano Gianini, e facendo un passo indietro anche i tifosi dalle opinioni più passionali si saranno accorti di come è cambiato l’Ambrì Piotta. Nel nostro hockey nessuno è al riparo da momenti difficili e passi falsi – basti ricordare il buco in cui è scivolato il Berna dopo tre titoli in quattro anni, oppure il “ricco anonimato” che anima il Losanna – ma in Leventina si sta ricostruendo un club che aveva perso completamente la sua direzione.
Le sconfitte ed i passi falsi inevitabili in un processo del genere a volte non sono facili da gestire o accettare, ed indubbiamente ne seguiranno altri. E non è nemmeno così impensabile che l’Ambrì Piotta tra qualche mese manchi l’accesso ai pre-playoff, risultato che nell’eventualità sarebbe sì amaro ma nemmeno scandaloso vista la serratissima concorrenza.
Da Davos i biancoblù sono però tornati con un’esperienza importante, e delle sensazioni che mancavano da tantissimo tempo. Mentre l’Ambrì Piotta vinceva la sua seconda Continental Cup nel dicembre 1999 Paolo Duca e Luca Cereda erano infatti impegnati ai Mondiali U20 in Svezia sotto la guida di Köbi Kölliker, e questo basta per realizzare quanto tempo sia passato.
E quanto è cambiato l’Ambrì, la cui turbolenta ma costante crescita in queste stagioni è ora più chiara a tutti. Basta fare un passo indietro.