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Interviste

Jacquemet: “Senza la decisione di McSorley di trasformarmi in difensore, oggi non sarei qui”

L’esperto giocatore si racconta: “Inizialmente non volevo andare a Ginevra, ma una volta arrivato mi sono subito trovato benissimo. La vittoria in CHL? Una bella storia, emozionante, ma non si può paragonare a vincere il titolo”

GINEVRA – Da ormai 12 anni Arnaud Jacquemet, nativo vallesano, fa parte dell’inventario del Ginevra. Il 36enne non è forse il primo giocatore che viene alla mente quando si pensa alle Aquile, ma è un elemento validissimo, importante ed è molto apprezzato dai fans ginevrini.

Una lunga carriera contraddistinta da cambiamenti ed in cui ha saputo reinventarsi. Una piacevole chiacchierata con uno degli elementi più corretti dell’intero campionato il quale dimostra molta profondità di pensiero anche in merito agli aspetti psicologici del professionismo.

Arnaud come sta andando la tua estate, stai seguendo gli Europei di calcio?
“Sta andando bene, grazie. Il calcio mi piace e quando ne ho la possibilità cerco di seguirli, ma finora non ho ancora visto un match per intero. Cerco specialmente di guardare le partite della Svizzera. Qualche giorno fa siamo stati con la squadra per due giorni a Champéry, dove abbiamo svolto un piccolo campo di allenamento. In quella circostanza abbiamo guardato tutti insieme Cechia contro Portogallo. Con la famiglia e i figli per me non è sempre evidente poter seguire tutte le contese. Più la competizione avanza ed entra nel vivo, più la guarderò”.

Passiamo all’hockey, stai per affrontare la tua dodicesima stagione consecutiva nelle fila del Ginevra. Qualcosa di raro con i tempi che corrono. Insomma il matrimonio funziona alla grande…
“Quello tra il Ginevra e il sottoscritto è stato un bell’incontro, si può definirlo così. Chris McSorley mi voleva a Ginevra già all’età di 15 anni, mentre ero a Sierre. Oltre a me avrebbe voluto portare anche Jérémy Gailland, ma alla fine entrambi optammo per il trasferimento a Kloten. Io all’epoca dicevo che non avrei mai voluto andare a Ginevra proprio a causa dell’immagine che si aveva di McSorley. Nel 2013 venni relegato con il Langnau. Ormai in quella situazione avevo poche opzioni e allora decisi di firmare per un anno a Ginevra, malgrado McSorley fosse sempre lì. Non era decisamente programmata la cosa. Una volta giunto in loco mi sono subito trovato benissimo: una splendida città, un magnifico ambiente e io e la mia famiglia ci siamo subito sentiti a nostro agio, e adesso sono ancora qui”.

Ora McSorley non c’è più, ma di anni ne hai comunque trascorsi tanti con lui. Si può dire dunque che ti eri sbagliato sul suo conto?
“(Jacquemet ride ndr.). Esatto. Chris ha il suo carattere e le sue idee. Ha fatto moltissimo per il club e per la città, non si può dimenticare la sua impronta. Ha sempre tirato fuori il meglio dai suoi giocatori, era bravo a capire e a riconoscere rapidamente i tasti che doveva toccare con i vari singoli. Ad esempio, se lui con me sclerava, io non rispondevo per così dire. Non serviva a nulla urlarmi addosso. Quindi con me cambiò attitudine. Niente più urla, bensì spiegazioni. Con altri miei compagni invece era meglio gridare, con questa differente tipologia di persone otteneva subito una reazione e dei frutti. Questa capacità di comprendere le necessità dei singoli era una delle sue abilità. Ed è anche Chris che decise di farmi cambiare ruolo, da attaccante mi trasformò in difensore”.

Raccontaci come andarono le cose in merito a questa trasformazione, avvenuta attorno al 2015. Come fu la tua reazione?
“Non fu facile. Arrivai un mattino nello spogliatoio e sulla lavagna della formazione serale il mio nome un po’ dal nulla figurava in difesa. Oltretutto avevo iniziato bene il campionato, avevo delle buone statistiche e giocavo in linea con Jeremy Wick e Jim Slater. Però intendiamoci, non che fosse poi una grandissima sorpresa, ero già stato spostato al centro in precedenza. Ero a fine contratto, c’erano diversi infortunati in difesa e quindi il coach decise di riciclarmi in difesa. Se feci resistenza? No, quando McSorley vuole qualcosa non c’è mica da scegliere, esegui e basta. Non fu evidente all’inizio, era tutto nuovo, ma dall’altro lato avevo anche meno pressione, dato che ero un neofita in quella posizione. Ho cercato di metterci una buona attitudine, imparare molto e ho ricevuto tanti preziosi consigli dai difensori dell’epoca, come Bezina, Mercier e Vukovic. Tutti sono stati gentilissimi con me. In fin dei conti ho disputato i miei migliori anni in qualità di difensore e se non avessi cambiato ruolo non sarei probabilmente più qui a giocare ancora a questi livelli. Quindi sono grato a McSorley”.

Veniamo al passato più recente, quest’anno non siete riusciti a difendere il titolo, ma è arrivato il trionfo in CHL, pure tanta roba…
“A inizio stagione gli obiettivi erano due. Difendere il titolo e vincere la Champions. Volevamo essere la prima squadra elvetica a vincerla con il nuovo formato. Abbiamo veramente giocato a fondo e preso seriamente l’intera competizione. È stata una bella storia, un bel percorso, ma non si può certo paragonare alla vittoria del titolo. Non ci sono i playoff, non si gioca ogni 2 o 3 giorni e non c’è quella tipica pressione da postseason. C’è però da dire che la settimana precedente alla finalissima è stata davvero intensa da vivere e molto bella. Si respirava l’importanza dell’evento. Giocare l’atto conclusivo in casa con il tutto esaurito e vedere il grande schermo piazzato all’esterno de “Les Vernets” come durante la serie di finale contro il Bienne è stato un po’ come rivivere la Gara 7 che ci aveva portato al trionfo. Era lo stesso tipo di ambiente. Il campionato invece è stato deludente, in particolare il fatto di non aver nemmeno raggiunto i playoff. Se fossimo stati eliminati almeno nei quarti o in semifinale, magari alla settima partita e con le armi in mano, sarebbe stato differente. Uscire così, ai play-in, è stato davvero brutto”.

Aver conquistato finalmente il titolo ha cambiato un po’ il tuo spirito?
“È un peso in meno, quello è chiaro. Quando iniziai la mia avventura a Ginevra, eravamo più che altro degli outsiders. Non eravamo uno Zurigo o uno Zugo, sempre tra i favoriti. Sino a circa quattro anni fa era un po’ questo il sentimento. Il club però ha lavorato molto, siamo tutti entrati in un altro mood e ora anche noi siamo tra i favoriti e sappiamo di aver costruito qualcosa d’importante. Nel mio caso, vincere a 35 anni dopo tre finali perse è stato fantastico. Quando arrivi alla vittoria vuoi poi assolutamente ripeterti per poter rivivere le tantissime emozioni”.

Sei uno che commette pochissime penalità, uno dei giocatori più corretti dell’intera lega. Addirittura nel postseason è dal 2015 che non ricevi più penalità, quasi follia. Come te lo spieghi? È grazie alla tua testa e alla tua lucidità?
“Più che altro direi che le poche penalità ricevute sono dovuto al mio stile di gioco. Non sono uno fisico, non gioco duro. Se vado al contatto è con l’idea di conquistare il disco o guadagnare dello spazio senza fare male. Io non ho quel tipo di fisico che ti permette di fare certe cose a differenza di altri miei colleghi, bravi in questo tipo di situazioni e capaci di mettere l’energia. Io l’energia la uso invece principalmente per bloccare i tiri ad esempio. Inoltre cerco sempre di evitare le penalità stupide, ad esempio in fase offensiva. Faccio molta attenzione in queste circostanze. Dopo chiaramente ci sono anche le penalità utili, quelle buone e che a volte servono”.

Ci confermi, non hai mai incassato una penalità di partita?
“Esatto. Mi ricordo che una volta a Kloten, da giovanissimo, ricevetti 10 minuti per proteste nei confronti dell’arbitro. Il mitico Felix Hollenstein, assistente allenatore a quell’epoca, mi sgridò di brutto. Da lì smisi in pratica anche di protestare (Jacquemet ride ndr)”.

Di recente hai consegnato il tuo lavoro di Bachelor dedicato alla salute mentale dei giocatori, spiegaci un po’ il tutto…
“Io ho studiato marketing e comunicazione, attività che non hanno nulla a che fare con la psicologia, ma il tema del lavoro di Bachelor era abbastanza libero. Ho quindi deciso di proporre l’argomento della depressione e dei problemi mentali nel disco su ghiaccio e ho ricevuto l’approvazione da parte dei vertici scolastici. Ho scelto questa tematica perché mi sta particolarmente a cuore. Credo di avere accumulato abbastanza esperienza nella mia carriera per poterne parlare, avendo vissuto certe cose, anche se evidentemente non sono mica uno psicologo e non ho la pretesa di aver fatto chissà cosa con questa tesi. Semplicemente mi sono chiesto se la Federazione, la Lega e i club facciano abbastanza per aiutare i giocatori sotto questo punto di vista. Ho pure inviato un questionario con delle domande a tutti i giocatori della lega e ho ricevuto un centinaio di risposte. È stato molto interessante e i risultati hanno mostrato che c’è ancora tanto da fare in questo ambito. Diversi giocatori soffrono o hanno sofferto di depressione, ma spesso non osano parlarne. È tuttora frequentemente un tabù, perché c’è sempre il mito che l’hockey sia uno sport da macho. Bisognerebbe forse fare di più per sensibilizzare questo argomento, magari mettere a disposizione degli esperti esterni agli atleti. Ed è importante parlare di queste cose già a partire dalle giovanili. I ragazzi devono sapere che è normale poter cadere in certi brutti momenti. C’è la pressione del risultato, esistono gli infortuni e altro ancora. Bisogna discuterne e cercare aiuto, non nascondersi e tenersi tutto dentro. Al giorno d’oggi vigono ancora il pensiero e la paura ad aprirsi. Un esempio? Un atleta oggi può ancora pensare che un club, se deve scegliere tra due giocatori equivalenti, opta per colui che non ha mai sofferto di depressione. Quindi si preferisce stare zitti. Sono comunque contento che qualcosa si stia muovendo, ultimamente ci sono state delle belle testimonianze, tutte importantissime, cito i casi di Zwerger e di Mottet, ma ce ne sono state altre di giocatori in attività o altri che hanno smesso da poco”.

Potresti in futuro lavorare in questo ambito? Hai già qualche progetto?
“Non lo so ancora, vedremo. Di recente ho frequentato uno stage negli uffici del Ginevra. La società non si occupa solamente di hockey, il raggruppamento comprende pure il calcio maschile, quello femminile e il rugby. Ho visto un po’ tutto. Prossimamente dovrei poter svolgere altri tipi di stage in qualche ditta partner del club. Spero di trovare qualcosa che mi farà vibrare come l’hockey, anche se è obiettivamente difficile, ma l’obiettivo è quello di avanzare e compiere attività interessanti”.

Per ora sei ancora un giocatore e sei arrivato a quota 859 partite in LNA. Per giungere a 1’000 ti servono all’incirca ancora tre stagioni. Utopia?
“Alla mia età è molto difficile guardare così tanto in avanti. Ormai prendo anno dopo anno. Una cosa è sicura, non cambierò più squadra e finirò la mia carriera nel Ginevra. Bisogna valutare il corpo, il ruolo e le domande sono molteplici: ho ancora il fuoco sacro? Cosa vuole il club? Ha ancora bisogna di me? Iniziamo dunque a disputare il prossimo campionato e poi vedremo. I sacrifici sono tanti, più s’invecchia più si deve lavorare e diventa sempre più duro riuscire a fronteggiare avversari fortissimi e giovani affamati. Attualmente il mio fuoco è ancora intatto, ma tra 6 o 9 mesi lo sarà sempre? Penso di sì, ma chi lo sa, il declino alla mia età può arrivare in fretta. Le 1’000 partite non sono quindi certo un obiettivo, non ci penso assolutamente”.

E allora staremo a vedere fino a quando durerà il lungo viaggio di Jacquemet.

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