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Lugano

La sconfitta e quel suo dolore che ti insegna a vincere

LUGANO – Sono passate ormai tre settimane dalla cocente eliminazione del Lugano nei quarti di finale, tante ne sono servite per far passare pensieri, emozioni, selezionare idee e conclusioni su questa ennesima delusione per i colori bianconeri.

Ripetiamolo fino alla nausea: nove stagioni, sette eliminazioni ai quarti e due playout stanno diventando un “curriculum” pesante per una squadra e una società come l’HC Lugano, e anche questa stagione è stata solo una puntina in più per appendere all’albo un misero post-it con scritto “1/4”.

Una frazione numerica che sta diventando un incubo, un’abitudine, si spera non la regola. No, non lo diventerà, ne siamo sicuri, perché nonostante i limiti denotati dai bianconeri – tutti, giocatori e staff tecnico – è pur vero che non è stata una stagione da buttare.

Attenzione, di obiettivi stagionali ce n’erano due principali e uno è stato mancato, ossia quello di superare l’ostacolo del primo turno ad eliminazione, e per forza, pur cercando di soffocarla, la parola “fallimento” si delinea sulla tastiera, già a vista prima ancora di batterla sui tasti.

Fallimento non riferito alla stagione intera, perché se è vero che alla fine è una cosa che conta, dietro ci sono delle situazioni che hanno dato dei segnali precisi e positivi che non si possono ignorare, ma non per fare i buonisti di turno, ma perché semplicemente è così.

Non ci vogliamo addentrare di nuovo in un contesto troppo tecnico della sfida al Ginevra, quindi ribadiamo solo qualche concetto generico che a nostro parere racchiudono molti argomenti – leggasi: singoli – per cui ci vorrebbero tre pagine solo per sciolinarli.

Questi concetti sono molto semplici, e sono cose che inconsciamente ci ha insegnato il signor McSorley: una squadra che termina il campionato al terzo posto in classifica deve affrontare ogni avversario con la personalità e la sicurezza che ha acquisito da quel risultato in graduatoria, raggiunto grazie a grandi qualità tecniche e di gruppo. Una squadra che termina il campionato al terzo posto deve voler imporre la propria legge sempre e comunque, a prescindere dall’avversario. Una squadra che termina il campionato al terzo posto deve giocare a testa alta e petto in fuori, lasci che sia l’avversario ad adattarsi e inseguire.

Tutto qui? Forse siamo stati molto generici, ma speriamo di aver colto un concetto importante, che è anche ciò che tutti (non) abbiamo visto da parte del Lugano. In una sfida dove Davide ha battuto Golia, quel gigante forse si credeva così alto da essere irraggiungibile da una pietra scagliata con una fionda e al contempo, inconsciamente si è messo sulle ginocchia per permettere un colpo migliore al “piccolo” (che in fondo tanto piccolo nen è) Davide armato di fionda e sassi appuntiti.

Una pietra che è diventata un macigno, quella che ha investito in pieno anche Patrick Fischer, letteralmente sotto choc dopo la sconfitta in gara 6 alle Vernets. Fischer che, nonostante la propria di sicurezza (“Siamo i più forti” ripetuto in loop) non ha saputo infonderne a sufficienza e con i dovuti punti di riferimento a una squadra che nei playoff ha mostrato e ingigantito problemi che dalla regular season parevano risolti. Ovvero quelli che impedivano di ripetere 3-4 prestazioni convincenti in fila, che ha ricominciato ad essere un puzzle da fare e disfare con un line up spesso mescolato, per colpe proprie e per fattori esterni come gli infortuni.

Punti di riferimento mancati anche a chi andava sul ghiaccio, dove Pettersson e Klasen hanno scoperto un problema che in regular season era mascherato dalla montagna di punti confezionata in due, ovvero la mancanza di un primo centro veramente completo dal lato tecnico, fisico e di pattinaggio che si mettesse a disposizione dei due fenomeni. Metteteci poi l’infortunio di Brunner, le prestazioni inquietanti di Simek e una certa mancanza di alternative tra gli stranieri ed ecco che si cade in quell’inevitabile meandro tecnico che volevamo schivare e che avrebbe ancora molti argomenti da sfogliare.

Non vogliamo privare chi legge però delle sensazioni – e certezze – positive che hanno dipinto le altre frazioni di questa stagione, e lo sappiamo che non è facile, ma c’è da credere che su questi punti si vorrà costruire un Lugano vincente nel futuro.

Chiudere al terzo posto la regular season a soli quattro punti dalla vetta con una qualificazione ai playoff mai minimamente in dubbio non dev’essere visto come un mero ed effimero premio di consolazione, la classica “medaglia di legno”, ma questo risultato è stato frutto di qualcosa di concreto.

Frutto di una Resega tornata fortino (19 vittorie) in cui il Lugano si è espresso per diversi incontri su livelli molto alti, denotando concretezza e gioco spettacolare. Frutto di una squadra che, in barba a chi ancora crede che non abbia un gioco – o meglio non lo vede – lo ha eccome, ma forse andrebbero dimenticati i rigidi e basilari schemi di Hurassiana memoria.

Lo stile di gioco di Fischer è innovativo, non sempre continuo e logicamente da perfezionare, perché per proporlo occorre una squadra costruita “ad hoc”, con una difesa perfetta e attaccanti veloci e dalle grandi doti di pattinaggio, ma se anche un Heinz Ehlers a caso (non proprio l’ultimo arrivato, chiedere ad Alessandro Tamburini) lo ritiene l’hockey più moderno, così sprovveduto il buon Patrick non è.

Ha costruito una squadra scegliendo tasselli ben precisi, che potessero andare a collimare alla perfezione con chi era già presente, potendo anche contare su una dirigenza che gli ha messo a disposizione giocatori di grande talento e che gli ha permesso di costruirsi la squadra anche durante la stagione, segnale di una enorme fiducia nei suoi confronti.

Proprio per questo non è che a Fischer si possa dare pazienza in eterno, questo lo si capisce benissimo, ma gli va dato soprattutto il tempo di imparare a far convivere una volontà di far giocare i giovani e la pressione del risultato fattasi vieppiù pesante con la costruzione in corsa della squadra, non proprio obiettivi facilissimi per chi ha voluto la Ferrari dopo aver fatto rapidamente la patente su una più tranquilla Mercedes.

Fischer va dato anche il tempo di assimilare tremende botte psicologiche come quella subita nei quarti e, ne siamo sicuri, imparerà tantissimo, perché come da lui ammesso “il dolore è il maestro migliore”.

Nello sport, come nella vita, dopo la caduta ci si rialza più forti, senza rimanere per terra a mugugnare, anche così il Lugano potrà tornare il Grande Lugano.

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